Il Crocifisso

Ignoto scultore dell’Italia meridionale
Crocifisso
Legno intagliato, dipinto
Fine XV secolo/inizio XVI secolo
Misure: cm 180
Santa Severina, Cattedrale di Santa Anastasia

 

In una Relazione Ad Limina dell’Arcivescovo Muzio Soriano, datata al 1678, edita da Giuseppe Caridi, viene tratteggiata una mappa delle cappelle della cattedrale con le loro funzioni e tra queste viene inclusa anche quella del Crocifisso, nella quale si celebravano tre messe alla settimana . Dunque, abbiamo motivo di credere, che la consacrazione della suddetta cappella avvenne in un momento ancora non precisato del XVII secolo, periodo in cui si succedettero ben sette arcivescovi . Altrettanto difficile è capire se il Crocifisso ligneo fosse già esposto in quegli anni nella “cona” attuale, in quanto lo stile dell’altare rinvia come abbiamo ricordato a manufatti coevi del XVII secolo.
Pesavento e Pino Rende, forniscono notizie interessanti riguardo l’ubicazione del simulacro nel corso del tempo; quasi certamente la scultura nel 1559, durante la Visita del Vicario generale Giovanni Tommaso Ceraldi, era in una posizione centrale nella chiesa; infatti nella Visita pastorale si specifica che «Dopo aver ingiunto al Tesoriere di avere cura dell’esistente tanto jn sacristia mag.a che in parva, il Vicario ritornò all’interno della chiesa dove, nel mezzo pendeva l’immagine lignea di Nostro Salvatore in croce, posta proprio sopra la portam magnam per la quale, salendo, si accedeva al coro» .
Indicazione confermata anche negli anni dell’arcivescovato di Alfonso Pisani (1586-1623) in cui si attesta che era presenta «[…] un alto crocifisso in mezzo alla chiesa» .
In seguito, con l’avvento del vescovo Berlingieri e del suo successore Pisanelli, con i numerosi lavori di modifica apportate alla cattedrale, il Cristo ligneo venne spostato nell’attuale cappella, adesso dedicata proprio al Crocifisso . Ad ogni modo nel corso del XIX secolo la scultura fu rimossa perché ritenuta non conforme ai nuovi canoni estetici, ma grazie all’intervento dell’arcivescovo Camelo Pujia, venne ricollocata all’interno della cattedrale di Santa Anastasìa e divenne oggetto di particolare devozione .
Antonio Pujia, cultore di storia che affiancava il sopra menzionato vescovo spiega la vicenda connessa all’antico oggetto di culto:
ù«Così è avvenuto anche di un antichissimo gran Crocifisso bizantino – greco, ch’è stato da poco rimesso al posto suo, alla sua Cappella, nella nostra Chiesa Metropolitana. Perché ritenuto poco o punto bello, era stao levato via…Fortunatamente un sacerdote, attaccattissimo alle cose antiche, siano anche vecchie e brutte, lo domandò per una chiesetta della città: e fu lì che l’attuale Arcivescovo lo vide, e ne capì subito l’importanza; scorgendo in esso tutti i caratteri proprj a un Crocifisso dell’epoca bizantina, di quell’epoca, cioè, che la Chiesa di Santaseverina, seguendo il rito greco, aveva le sue Immagini quali allora lo esigeva la liturgia. Volle, anzi, l’Arcivescovo assicurarsi dell’antichità del Crocifisso coll’osservare quale fosse stato il primitivo colore onde era dipinto; e vide che sotto l’attuale colore vi si trovava quello de le Immagini bizantine. Già per bizantino-greco lo mostrano le sue forme stecchite, la positura, l’irrigidimento delle membra. Certo, è uno de’ pochi avanzi che sopravvivano di quello che Santaseverina aveva, quando seguiva il rito greco. Adesso è, di nuovo, nella Metropolitana; ed è veneratissimo dal popolo; il quale in tempo di siccità lo invoca con fede, e con preghiere e lagrime gli chiede l’acqua per le sue riarse campagne. Il popolo non cerca Immagini belle, ma Immagini prodigiose» .

Purtroppo lo studioso, vicino alla corte vescovile non cita esplicitamente il nome della “chiesetta della città” in cui era stata traslata l’opera.

Sull’antica statua lignea del Crocifisso, possediamo purtroppo, pochissime notizie, giacché menzionata solo brevemente in alcuni documenti . Non è possibile risalire ad un preciso artefice, e solo pochi studiosi si sono interessati all’opera. Frangipane ne designa l’autore in uno «scultore arcaizzante», espressione usata dal cultore per indicare l’utilizzo di un linguaggio arcaico da parte dell’artista. Pierluigi Leone de Castris lo annovera insieme ad altri crocifissi calabresi come quello della chiesa di S. Maria Maggiore ad Acri e quello della chiesa di S. Nicola a Morano, tutti verosimilmente appartenenti ad un ateliers di botteghe locali . A nostro avviso, è possibile attribuirne la realizzazione ad un maestro attivo in area meridionale, per certi versi ancora suggestionato da stilemi bizantini e normanni .
Infatti, il Crocifisso di Santa Severina mostra commistioni artistiche differenti, frutto della sedimentazione di una cultura antica legata a questo contesto, condizionato come è noto da passate civiltà; nel contempo l’opera si accosta strettamente ad elaborazioni stilistiche siciliane, trovando solo poche tangenze con quelle napoletane risentendo, inoltre, delle più raffinate suggestioni di matrice toscane. È un tipo di Christus patiens , cioè morente con il volto, carico di forza emotiva, il diaframma contratto dal dolore, le gambe sottili leggermente piegate con i piedi sovrapposti trafitti da un unico chiodo; potrebbe inoltre essere originale il Titulus crucis, il cui cartiglio si sviluppa con una sorta di stretto nastro a forma di “S”.
La scultura, come vedremo databile al maturo Rinascimento, è presumibilmente in legno di tiglio, ed è stata sottoposta negli anni ’90 del Novecento ad un restauro, in occasione del quale è stata rimossa la superficie pittorica e presumibilmente anche il sottostante strato di preparazione, la prima delle quali ritenuta posticcia, costituiva l’incarnato della figura. Intervento questo che ha intaccato le originali qualità formali dell’opera. La sua rimozione ha messo in luce, alcune lacune, fra cui un profondo foro sul quadricipite della coscia destra rendendo più visibili i numerosi fori praticati dagli insetti xilofagi. Prima del restauro, il manufatto presentava sul capo anche la corona di spine, eliminata perché ritenuta posticcia, unitamente al colore che ricopriva la superficie delle figura il quale, a parere dei tecnici restauratori, sarebbe stato applicato successivamente per correggere alcune imperfezioni. Certo, non avendo una scheda dettagliata di restauro, è difficile valutare scientificamente gli interventi che sono stati effettuati, e non può escludersi che la scultura conservasse tracce di policromia originale . Discutibili per proporzione, sono invece le braccia (fig. 8), molto più sottili rispetto al corpo, le quali mostrano nei punti di congiuntura con il torso inserti di diverso materiale ligneo.
Volendo effettuare una lettura iconografica e iconologica del manufatto, è necessario citare uno studio di Gianfrancesco Solferino su alcuni importanti crocifissi della diocesi di Catanzaro – Squillace, il quale effettuando una disamina attenta delle varie opere, le commenta anche in chiave antropologica, in connessione al forte legame che i fedeli nel corso dei secoli hanno instaurato con l’oggetto di culto.
Nell’opera siberenense l’espressione ricca di pathos e intimità del volto (fig. 9) di Cristo, invita i devoti ad instaurare un rapporto più diretto con l’immagine divina, solidali con un momento nodale della storia dell’umanità e della sua Salvezza. L’autore, è riuscito a rappresentare il soggetto in maniera semplice ma efficace: la resa degli occhi appena chiusi, la bocca semiaperta da cui s’intravedono anche i denti, l’intaglio finemente lavorato della barba e dei capelli creano sottili rimandi naturalisti. Il corpo dalla rigida articolazione legnosa ricorda alcuni crocifissi quattrocenteschi siciliani , in molti casi ancora vincolati nell’anatomia dei lineamenti ad esempi prerinascimentali, mentre più aggiornato si mostra il volto che nel taglio di tre quarti più attentamente indagato nei dettagli espressivi si allontana da quei prototipi avvicinandosi a esempi napoletani influenzati da suggestioni toscane. Molto singolare è la forma del ventre (fig. 10), avvolto in basso da un perizoma bianco, poiché presenta un rigonfiamento che ha indotto alcuni studiosi ad interpretarlo con l’iconografia del cosiddetto “Cristo gravido”, già ritrovato in alcune icone bizantine, ma anche in altre sculture come il Crocifisso della Chiesa Madre di Castronovo di Sicilia . Si potrebbe pensare ad una forma di catechesi, in quanto: Cristo di per sé è morto, ma contiene in sé la vita .
I caratteri formali di questo manufatto ligneo farebbero pensare ad un presunto maestro attivo nelle botteghe siciliane, nel contempo influenzato dall’espressività dei manufatti usciti dalle botteghe partenopee . Per tale motivo non può escludersi la possibilità che l’artefice possa essere di origine calabrese aperto ad entrambi i poli artistici a cui la Calabria ha sempre fatto riferimento. Purtroppo non esistono ancora disamine organiche del patrimonio scultoreo ligneo e in particolare dei Crocifissi di cui si contano numerosi esempi rinascimentali e la mostra organizzata a Cosenza dalla Soprintendenza della Calabria nel 2001 dal titolo “I segni del sacro: croci e crocifissi in Calabria” è rimasta priva di catalogo non fornendo punti di riferimento agli studi successivi. Bisognerà necessariamente sospendere il giudizio in attesa di più puntuali studi sulla scultura lignea nell’Italia meridionale che sempre più si vanno incrementando .

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